Nel 2014, dopo un anno intenso, pieno di successi e fallimenti, decisi di andare a Varanasi, in India. Un mio amico mi aveva consigliato una guest house gestita da un bramino e dalla sua splendida famiglia. Partii a fine Ottobre, in prossimità della Festa del Diwali. Varanasi mi sorprese e mi entrò nel cuore da subito. Jacopo Pacifico, il mio vicino di stanza, era un giovane flautista che suonava tutto il giorno. La sua determinazione mi colpii e la sua musica divenne la colonna sonora di quel viaggio sconvolgente. Diventammo amici e a distanza di anni, ci rincontrammo in Italia. La sua, è la storia di un uomo che ha raggiunto i suoi sogni con caparbietà e sacrificio. E’ la storia di un “semplice” flauto di bambù e di una musica che ha saputo fare da ponte tra Oriente e Occidente. Ora Jacopo è uno dei più autorevoli e stimati flautisti di musica indiana in Italia, in grado di proporre il repertorio della tradizione classica e dare il suo contributo per diffonderla. Ho deciso di intervistare Jacopo per voi…
Quando ti sei avvicinato alla musica?
Ho iniziato quando facevo le medie, avevo undici anni. I miei genitori mi avevano iscritto ad un corso di chitarra. Dopo un paio di lezioni, avevo imparato due o tre accordi e una volta a casa composi il mio primo ritornello. La mia vena compositiva emerse immediatamente. Verso i tredici anni fondai una band con altri miei compagni di scuola, suonammo per tre anni in tutta Reggio Emilia e avemmo la fortuna di aprire un concerto dei Nomadi, esibendoci davanti a duemila persone. Dopo quell’esperienza, mi avvicinai a diversi stili musicali, dal punk al rock al reggae, continuando a comporre canzoni con testi sia in inglese che in italiano. Verso i diciott’anni fondai altre band dove suonavo la chitarra e cantavo ma, intorno ai ventitré anni, mollai tutto per andare in India a studiare meditazione. Da che ho memoria, la musica è sempre stata per me una passione, un’ancora di salvezza per non perdermi e rimanere a galla.
Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia per andare a studiare il bansuri in India?
Dopo il mio primo viaggio in India, al mio ritorno in Italia, decisi di studiare musica più seriamente. Ero alla continua e spasmodica ricerca di una mia identità musicale quindi: presi lezioni di canto gospel, jazz, arabo; mi avvicinai a vari strumenti come la batteria, pianoforte, flauto, etc… Avevo un discreto repertorio di canzoni folk, scritte di mio pugno, cantate da me e accompagnate dalla mia chitarra e la mia armonica ma, non ero ancora soddisfatto di me stesso. Studiai per cinque anni il flauto traverso dopodiché capii che l’impostazione classica e rigorosa del conservatorio, non faceva per me. Mi venne in mente il flauto di bambù che avevo acquistato in India e il concerto di Chaurasia Hariprasad, il più grande flautista indiano di sempre, al quale avevo avuto la fortuna di assistere. Il suono vellutato e legnoso di quell’antico strumento, mi aveva già rapito allora e mi era impossibile dimenticarlo. Trovai un corso di bansuri al Conservatorio di Vicenza e decisi di lasciarmi trasportare completamente dalla musica indiana. L’Italia mi andava stretta e desideravo ritornare alla fonte, alle origini, fu cosi’ che, sotto consiglio del Maestro Gianni Ricchizzi, chiusi tutta la mia vita in alcuni scatoloni nel garage di mia madre e partii per Varanasi, la “città della luce”.
Raccontaci in poche parole la tua esperienza a Varanasi: lo studio della musica indiana, il tuo rapporto con le tradizioni locali. Cosa hai acquisito e cosa hai perso in quegli anni?
Durante il primo viaggio di ricognizione di quaranta giorni in India, capii subito che la situazione era molto complessa. Annotai sul mio taccuino moleskine tutto quello che mi poteva essere utile per districarmi in quella lontana e così diversa cultura. Non mi sono sentito pienamente accolto, almeno, non nell’immediato. Dovevo adattarmi alla sovrappopolazione, la suddivisione in caste, l’inquinamento, il cibo, l’acqua, era tutto nuovo e difficile da gestire. Mi iscrissi al corso di bansuri della Facolta’ di Arti Performative presso la Banaras Hindu University e mi buttai a capofitto nello studio. Suonavo ore ed ore, completamente immerso nella pratica dello strumento. A volte andavo a letto con le articolazioni doloranti, ma ero felice. Gli indiani chiamano “Sadhana” la pratica in una disciplina; costante e faticosa, un sacrificio che porta ad avere ottimi risultati, necessaria per perseguire la missione della propria vita.
Questa mia esperienza mi ha dato molto: ho avuto l’onore di studiare testi in sanscrito, conoscere ottimi musicisti e conoscere la cultura indiana e la sua spiritualità. Forse la vita a Varanasi mi ha tolto un po’ di salute: lo smog e la polvere delle strade ha influito sicuramente sul mio corpo ma ne è valsa la pena. La mia anima si è arricchita enormemente, l’India è entrata in me con la sua bellezza e le sue contraddizioni; una ricchezza che ho portato in Italia attraverso la musica e il mio stile di vita.
Dopo l’India, sei ritornato in Italia. In che modo ha riconfigurato la tua vita nel tuo paese di origine?
Il ritorno in Italia, dopo tanti anni all’estero, non è stato ovviamente facile. Per ritrovare la mia pace e bellezza interiori, ho riiniziato a meditare quotidianamente; pratica che paradossalmente avevo accantonato in India per via dei miei studi musicali.
Dopo neanche un anno, mi è stato proposto di trasferirmi, in estate, nelle colline di Reggio Emilia, la mia città natale. Da lì ho cominciato la mia nuova vita, partendo dalla natura. Nel borgo medievale di Votigno, dove si trova la Casa del Tibet, circondato dai boschi, ho iniziato una vita semplice fatta di musica e quiete, cibandomi dei frutti della terra coltivata da me. La Casa del Tibet, con all’interno il suo museo, inaugurato nel 1999 dal Dalai Lama, è colma di statue del Buddha, immagini e sculture sacre legate al buddismo e al pantheon induista. Ogni giorno ho la fortuna di udire i suoni delle natura che si risveglia o di sentir salmodiare i miei vicini tibetani. Ho trovato il mio angolo di oriente in Italia, tutto ciò è meraviglioso.
Ora organizzo workshop di bansuri, ho studenti che mi raggiungono da tutt’Italia. Con l’aiuto di un mio amico artigiano, costruisco flauti indiani professionali e continuo a fare concerti in Italia e Europa con il mio flauto, in solo o con altri musicisti.
Quali sono i tuoi obbiettivi e i prossimi progetti musicali?
Il mio obbiettivo è continuare a fare musica, vivere con semplicità e a stretto contatto con la natura. Ora sto registrando il mio nuovo album di musica indiana con il mio bansuri e continuo a scrivere canzoni folk con i “FLOW”, dove canto e suono la chitarra: ci siamo già esibiti in Italia e il nostro album “The Rise” sta avendo ottimi riscontri.
Cos’è per te la libertà?
La libertà per me è inseguire i propri sogni con coraggio. Quando ho deciso di inseguire il mio sogno, ho scelto la mia strada, non certo la più facile, sapendo che non sarei più riuscito a ritornare quello di prima. I miei genitori all’inizio erano contrariati ma con il tempo, vedendo la mia determinazione, non hanno potuto far altro che sostenermi in ogni mia scelta.
Cerco di forgiare i miei obbiettivi giorno per giorno, sfruttando il talento che mi è stato donato, restituendo agli altri la bellezza che riesco a trovare dentro me e la mia musica.
LINK per seguire Jacopo Pacifico:
THE FLOW
La casa del Tibet : http://www.casadeltibet.it/